giovedì 13 ottobre 2011

Il marketing, facebook e la guerra mediatica

La pubblicità, si dice, è l’anima del commercio. E visto che di "anima" si parla, sarebbe interessante interrogarsi anche sui legami che esistono (ammesso che esistano) tra pubblicità, commercio, innovazione, progresso, benessere, felicità e quanto altro vogliate aggiungere, giusto per dare un taglio etico che nobiliti il senso delle fatiche quotidiane di alcuni. Ma diamo per scontato che tutte queste quisquilie  non interessino ai più, e che i grandi numeri li facciano “i più”, e che sui grandi numeri si basino tutte le strategie dei mercati Ecco che allora la pubblicità ed i media utilizzati diventano l’elemento centrale delle politiche di marketing delle aziende.

I media. Fino a prima dell’avvento di internet, la diffusione di un brand, a livello nazionale e internazionale, vedeva come veicolo privilegiato radio, televisione e giornali. Oggi la concentrazione dei pubblicitari è incentrata su internet e sui modelli di diffusione applicati alla rete.

L’ultima tendenza, in questo senso, è quella che studia le strategie di comunicazione pubblicitaria all’interno dei cosiddetti social network, che vedono come punto di riferimento del settore il famigerato Facebook.

Proprio su Facebook si è concentrato lo sforzo dei “creativi” della rete. Molte aziende hanno implementato o incrementato la propria presenza nel noto luogo di ritrovo digitale, cercando di sviluppare qualsiasi forma possibile di interazione con il singolo utente.

Diciamo subito che più che una campagna di informazione commerciale mirata su un target, quella che è stata messa in piedi da molti marchi è stata più che altro una “sventagliata nel mucchio”. E di fronte ad un periodo di crisi internazionale che ha colpito ogni settore di mercato, le azienda hanno manifestato un interesse da “fondo del barile” nelle attività di reperimento di nuovi clienti. Ovviamente, i saggi pubblicitari hanno colto al volo l’occasione, scervellandosi sul come sviluppare nuove strategie per rispondere a queste esigenze e trasformare il periodo di vacche magre in un nuovo El Dorado.

Ed ecco apparire il magico bottone, il “like” di Facebook (ma non solo), quello che fa sentire ogni navigatore un po’ censore e un po’ opinion maker della rete, e che da l’illusione alle aziende di aver trovato un nuovo e micidiale strumento per la diffusione del loro brand. Non c’è che dire. Gli strateghi si sono dati da fare.

Del resto, quale miglior canale pubblicitario di una rete di conoscenze formata da gente che condivide interessi e momenti di vita, digitale e non, come sono i gruppi di Facebook? Ogni singolo utente può trasformarsi, anche inconsapevolmente, in un testimonial di un brand all’interno del suo network. Il livello di comunicazione virale che si instaura nelle comunità digitali è immensamente superiore, in termini di velocità di diffusione e partecipazione emotiva, al vecchio concetto del passaparola. Per meglio dire, il concetto rimane lo stesso, ma il media lo rende molto più potente e veloce utilizzando il link al posto della parola.

Fino a qui tutto sembrerebbe tornare. Ma...

Recenti studi, basati su rilevamenti a campione ed interviste dirette, hanno ipotizzato che si sia sviluppata una vera e propria sindrome del “like” in molta della utenza che frequenta i social network. Pare che sia difficile, per molti, resistere alla tentazione di piazzare a destra e a manca i loro marker territoriali, spingendo come ossessi su questo benedetto tasto “like” per segnalare il loro passaggio e trasformarlo in una sorta di presenza duratura, proprio come fanno i gatti nelle nostre città, anche se i simpatici micetti prediligono mezzi più antichi e meno apprezzati dalla netiquette.

Tutto sommato, pare che il gradimento espresso dal navigatore sulla pagina Facebook dell’azienda x, abbia poco a che fare con un reale interessamento nei confronti dei prodotti dell’azienda stessa. Nel migliore dei casi, ma sempre in una percentuale marginale, il significato del “like” non va oltre alla disponibilità di ricevere materiale informativo riguardante l’evoluzione dei servizi o la disponibilità di nuovi prodotti, a seconda del settore di appartenenza del brand. Cosa realmente si nasconda dietro ad un "like", quindi, non è dato saperlo. Almeno non nei termini dettagliati che servono alle aziende e ai responsabili delle loro strategie di vendita.

Ecco che allora si comincia a ipotizzare l’evoluzione del bottone “like” in qualcosa di più complesso. Pensate se l’utente di un social network potesse scegliere tra diversi tipi di interazione e sistemi di valutazione di un marchio, come ad esempio un bottone “potenziale cliente”, “cliente soddisfatto”, un “sponsor attivo” o persino un “sarei felice di provarlo gratis”. Questa specializzazione dell'interazione consentirebbe all'azienda di impostare una campagna informativa suddivisa per diverse tipologie di interesse direttamente espresse da gruppi specifici di utenti, oltre ad avere dei numeri più leggibili come ritorno dal marketing.  

Riassumendo e allargando il discorso a qualcosa di più dell’emblematico ma, al tempo stesso, limitativo Facebook, possiamo dire di essere in una fase in cui le aziende cominciano ad avere dei ritorni e una visione più matura delle possibilità reali della rete come canale commerciale, e a pretendere lo sviluppo di mezzi e strategie più specifiche per le loro reali esigenze.

Per gli attori più attenti, la fase di innamoramento iniziale si sta trasformando in qualcosa di diverso e più maturo. Se sarà vero amore lo decideranno i numeri, come nella migliore tradizione dei cantori del marketing.     

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