La pubblicità, si dice, è l’anima del commercio. E visto che di "anima" si parla, sarebbe interessante interrogarsi anche sui legami che esistono (ammesso che esistano)
tra pubblicità, commercio, innovazione, progresso, benessere, felicità e quanto
altro vogliate aggiungere, giusto per dare un taglio etico che nobiliti il
senso delle fatiche quotidiane di alcuni. Ma diamo per scontato che tutte queste quisquilie non interessino ai più, e che i grandi numeri
li facciano “i più”, e che sui grandi numeri si basino tutte le strategie dei
mercati Ecco che allora la pubblicità ed i media utilizzati diventano l’elemento
centrale delle politiche di marketing delle aziende.
I media. Fino a prima dell’avvento di internet, la
diffusione di un brand, a livello nazionale e internazionale, vedeva come
veicolo privilegiato radio, televisione e giornali. Oggi la concentrazione dei
pubblicitari è incentrata su internet e sui modelli di diffusione applicati
alla rete.
L’ultima tendenza, in questo senso, è quella che studia le
strategie di comunicazione pubblicitaria all’interno dei cosiddetti social
network, che vedono come punto di riferimento del settore il famigerato
Facebook.
Proprio su Facebook si è concentrato lo sforzo dei “creativi”
della rete. Molte aziende hanno implementato o incrementato la propria presenza
nel noto luogo di ritrovo digitale, cercando di sviluppare qualsiasi forma
possibile di interazione con il singolo utente.
Diciamo subito che più che una campagna di informazione
commerciale mirata su un target, quella che è stata messa in piedi da molti
marchi è stata più che altro una “sventagliata nel mucchio”. E di fronte ad un
periodo di crisi internazionale che ha colpito ogni settore di mercato, le
azienda hanno manifestato un interesse da “fondo del barile” nelle attività di
reperimento di nuovi clienti. Ovviamente, i saggi pubblicitari hanno colto al
volo l’occasione, scervellandosi sul come sviluppare nuove strategie per
rispondere a queste esigenze e trasformare il periodo di vacche magre in un
nuovo El Dorado.
Ed ecco apparire il magico bottone, il “like” di Facebook (ma
non solo), quello che fa sentire ogni navigatore un po’ censore e un po’
opinion maker della rete, e che da l’illusione alle aziende di aver trovato un
nuovo e micidiale strumento per la diffusione del loro brand. Non c’è che dire.
Gli strateghi si sono dati da fare.
Del resto, quale miglior canale pubblicitario di una rete di
conoscenze formata da gente che condivide interessi e momenti di vita, digitale
e non, come sono i gruppi di Facebook? Ogni singolo utente può trasformarsi,
anche inconsapevolmente, in un testimonial di un brand all’interno del suo
network. Il livello di comunicazione virale che si instaura nelle comunità
digitali è immensamente superiore, in termini di velocità di diffusione e
partecipazione emotiva, al vecchio concetto del passaparola. Per meglio dire,
il concetto rimane lo stesso, ma il media lo rende molto più potente e veloce
utilizzando il link al posto della parola.
Fino a qui tutto sembrerebbe tornare. Ma...
Recenti studi, basati su rilevamenti a campione ed
interviste dirette, hanno ipotizzato che si sia sviluppata una vera e propria
sindrome del “like” in molta della utenza che frequenta i social network. Pare
che sia difficile, per molti, resistere alla tentazione di piazzare a destra e
a manca i loro marker territoriali, spingendo come ossessi su questo benedetto
tasto “like” per segnalare il loro passaggio e trasformarlo in una sorta di
presenza duratura, proprio come fanno i gatti nelle nostre città, anche se i
simpatici micetti prediligono mezzi più antichi e meno apprezzati dalla
netiquette.
Tutto sommato, pare che il gradimento espresso dal
navigatore sulla pagina Facebook dell’azienda x, abbia poco a che fare con un
reale interessamento nei confronti dei prodotti dell’azienda stessa. Nel
migliore dei casi, ma sempre in una percentuale marginale, il significato del “like”
non va oltre alla disponibilità di ricevere materiale informativo riguardante l’evoluzione
dei servizi o la disponibilità di nuovi prodotti, a seconda del settore di
appartenenza del brand. Cosa realmente si nasconda dietro ad un "like", quindi, non è dato saperlo. Almeno non nei termini dettagliati che servono alle aziende e ai responsabili delle loro strategie di vendita.
Ecco che allora si comincia a ipotizzare l’evoluzione del
bottone “like” in qualcosa di più complesso. Pensate se l’utente di un social
network potesse scegliere tra diversi tipi di interazione e sistemi di
valutazione di un marchio, come ad esempio un bottone “potenziale cliente”, “cliente soddisfatto”, un “sponsor attivo” o persino un “sarei felice di provarlo gratis”. Questa specializzazione dell'interazione consentirebbe all'azienda di impostare una campagna informativa suddivisa per diverse tipologie di interesse direttamente espresse da gruppi specifici di utenti, oltre ad avere dei numeri più leggibili come ritorno dal marketing.
Riassumendo e allargando il discorso a qualcosa di più dell’emblematico
ma, al tempo stesso, limitativo Facebook, possiamo dire di essere in una fase
in cui le aziende cominciano ad avere dei ritorni e una visione più matura
delle possibilità reali della rete come canale commerciale, e a pretendere lo
sviluppo di mezzi e strategie più specifiche per le loro reali esigenze.
Per gli attori più attenti, la fase di innamoramento iniziale si sta trasformando in qualcosa di diverso e più maturo. Se sarà vero amore lo decideranno i numeri, come nella migliore tradizione dei cantori del marketing.
Per gli attori più attenti, la fase di innamoramento iniziale si sta trasformando in qualcosa di diverso e più maturo. Se sarà vero amore lo decideranno i numeri, come nella migliore tradizione dei cantori del marketing.
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